Sogni

Tendo a perdere il "filo del sogno", dopo che l'ho realizzato.

Continuo a credere che se non concretizzassi i miei sogni, la mia cartella della posta da leggere potrebbe sentirsi trascurata.

Ogni tanto rovisto nei vecchi cassetti, rispolvero testimonianze che mi riportano ancora lo stesso odore. Aspiro il contenuto delle parole, assaporando il conservato senso che avevano le cose in quell'istante e mi convinco che, certamente, i rischi erano valsi anche quella volta e se non fossi andato rifiutando il richiamo, non avrei alimentato la "fiamma".

Per questo credo anche che ciò che si vive in montagna vada oltre i valori rinchiusi nello sport. Tutto ciò che può accadere, tutto quello che si accetta, lo possiamo condizionare solo noi. Là fuori la natura rimane impassibile alla nostra presenza: non ha recinzioni, spogliatoi, ufficio iscrizioni, ritiro pettorali  e tabelle con regole e divieti. Per questo mi sento sempre libero di andare e grato alla natura per tutto questo.


Epifania
che tutte le feste porta via.

“Sto attaccando la nord-ovest del Cimon, ti chiamo io quando sono in cima. Occhio, che sei il mio unico testimone.” Finito di scrivere l’sms lo salvai, mentre m’inoltravo nel colonnato di faggi della Val de Piera. Peter, quindi,sarebbe stato l’unico a sapere le vere intenzioni che avevo in testa quel mattino d’epifania, non appena avrei inviato il messaggio al momento opportuno, cioè all’attacco della parete. Era effettivamente anche il solo ad esser certo che la potevo fare. Tre giorni prima mi aveva visto guidare la cordata, sullo stesso itinerario, piazzando una media di una protezione per tiro. C’eravamo divertiti come bambini a giocare sugli specchi di ghiaccio, che gli elementi naturali ci avevano regalato e Peter, alle prime armi con il terreno della parete nord, seguiva un amico in preda allo sciacallo, che progrediva davanti a lui senza piazzare protezioni. L’entusiasmo aveva cominciato a rosicchiarmi i dubbi. Esaurendoli, lasciava spazio alla certezza.
Dal letto caldo in cui stavo un’ora prima, la mia miopia mi aveva offerto uno sguardo lattiginoso verso la finestra. Il cielo era comunque azzurro e mi ero detto: - perché non farlo? Perché no?-
 Dovetti imbrogliare i miei a colazione, quando scesi le scale con lo zaino pronto e mi pronunciai che si trattava del solito giro per creste. Nessuna incrinatura di tensione nel mio sguardo doveva  trasmettere a mia madre inquietudini, e in fondo uscii dalla porta con una tranquillità convincente.
Vi voglio bene…sto bene…

Stavo passeggiando tra le mie montagne di casa ed il triangolo di roccia del Cimon di Palantina stava ora di fronte a me, più maestoso di quanto l’avessi mai visto. Mi sarei divertito di sicuro. Doveva rivelarsi un modo ideale per controllare se stavo guarendo davvero. La mia vita, nell’ultimo mese, stava riprendendo una piega più convincente e dentro di me sentivo che gli spettri dell’ansia e della morte non si sarebbero più manifestati con la stessa irruenza. Avevo imparato che nella vita c’erano anche le fosse, dove ci si deve saper affidare alla corda giusta, per venirne fuori. Forse, mi aveva soltanto colto di sorpresa il fatto che stavo cambiando una fase della vita, ma ora dovevo soltanto assorbire il debole auspicio dei raggi di sole che filtravano tra i rami alti dei faggi. Dovevo imparare ad amarmi e ad esser sincero con me stesso in ciò che volevo. Tuttavia, mentre camminavo, il mio umore e le mie sensazioni altalenavano dalla calma e dall’assoluta assenza di pensieri, ad improvvisi stati d’ansia, dovuti certamente all’esasperata curiosità di mettermi in gioco il più presto possibile. Dovevo assaporare le esalazioni della paura e rimandarle fuori, come il fumo di una sigaretta. Imparare a respirare…
 C’era gente in valle con gli sci, sentivo le voci echeggiare contro la “mia” parete  e la temperatura dell’aria si stava alzando. L’esubero di concentrazione stava infatti ampliandomi il potere dei sensi, osservai la mancanza di brina sui pezzi di prato scoperti e ciò non mi piaceva, perché significava un rialzo termico. Mi sarei comunque accertato delle condizioni del ghiaccio, non appena fossi arrivato ai piedi del primo muro. Le ginocchia ebbero una convulsione mentre mordevo con i ramponi il pendio di neve sotto la parete, sapevo che era soltanto uno scherzo dei nervi in preda all’emozione e che dipendeva da me farlo smettere.


Collegai le piccozze all’anello dell’imbrago con un cordino di kevlar, indossai il casco e inviai l’sms a Peter. Tutto era pronto e nello zaino non rimase che la giacca a vento. Nessuna corda, nessun dispositivo per l’assicurazione della stessa. Sentivo che i tempi erano maturi per esprimere la mia massima ispirazione, senza timori o visioni di cadute. C’erano le condizioni in parete come le aspettavo da anni. Era come aver ottenuto un premio che rincorrevo dall’inizio del mio peregrinare in questi luoghi.
 Nessuno mi poteva immaginare sui primi balzi di questo ripido versante al posterno, se non avesse udito i colpi di piccozza. Salivo senza fermarmi, seguendo i buchi fatti da me e Peter sulla neve il mercoledì, piazzando gli attrezzi a regola d’arte e con ritmo cadenzato. La tensione iniziale si sciolse e ciò che seguì fu una dilatazione del gesto nello spazio e nel tempo, con la situazione tutta sotto rigoroso controllo e con la prerogativa della massima sicurezza. Una postura elegante e sempre positiva, dal cervello alle punte frontali dei ramponi. Pensa positivo, non aver fretta, respira…



Il limite dei quattrocento metri della parete stava qualche metro sopra la mia testa, illuminato dai raggi del sole, come una lamina d’acciaio incandescente. Avrei voluto raggiungerla in fretta, perché il traguardo ti rende impaziente ma il Cimon, presso la vetta, s’impenna con terreno precario, somigliando molto più ad una rocca di sassi in procinto di crollare, che ad una rupe. Optai per la fessura sulla sinistra, in quanto sapevo che seguire la linea originale sarebbe stato il passo più rischioso di tutta la salita e dovetti lavorare molto con le picche per trovare l’aggancio ideale, in mezzo al terriccio ed il muschio che il rialzo termico aveva ammorbidito. Mi imposi la massima concentrazione, l’esposizione in questo tratto si prospettava sotto i ramponi per l’interezza della parete fino ai ghiaioni, ora ricoperti di neve e decorati dalle tracce degli sci alpinisti che scendono dal Cavallo.


 Piantai prima una poi l’altra picca sul pianoro sommitale. Il sole fece scintillare le lame, poi mi accecò gli occhi, portandomi quella sensazione nel cuore che lo fa singhiozzare. Mi scostai dal bordo del baratro, cercando di esser meno patetico possibile, inseguendo piuttosto i pensieri contrastanti che ora vagavano nella mente. Chiamai Peter, come d’accordo. Mi rispose entusiasta più di quanto lo fossi io in quel momento. Dissi che era stata una figata, ma che ora mi sentivo un cane solitario. Poteva immaginare cosa poteva esser stata quella passeggiata al posterno, durata un’ora, il tempo per lui di svegliarsi e di farsi la doccia , ma non poteva capire cosa provavo ora nel mio profondo. Molte cose mi erano chiare solo ora che ero seduto sulla cima. Da solo sulla montagna, al termine della salita, esalavo la solitudine amara che era lo spettro dei mesi precedenti, pensai che forse era il colpo di coda di un ciclone in scioglimento. Avrei curato il valore dell’amicizia in montagna, del legame e della complicità. Medicine efficaci ed insostituibili. La tesi mi fu chiara, limpida come una lezione di anatomia all’accademia e scesi verso casa. M’inoltrai ancora nella faggeta, estraniato dalla nuova visione delle cose, evidentemente ero cambiato io e sarei stato pronto ad ammettere i miei sbagli ma anche le mie ragioni. Le avrei poste davanti al mio viso illuminato dall’entusiasmo  e dalla felicità di un bambino. Non avevo più nulla da nascondere, ora che tutto era stato fatto,  mi convinsi che non c’era motivo di aver paura a svelare dov’ero stato, perché confidavo in quello che avevo fatto. La parete sorgeva da dietro la linea del bosco, mano a mano che scendevo per i pascoli scoperti dalla neve. Era mezzogiorno e ormai faceva caldo, la terra cominciava a rammollirsi, come cioccolata tra le dita calde e osservavo il contrasto con la fredda parete, in fondo ad un’immagine che avrei potuto dipingere in quattro secondi a quattro colori: il verde, il marrone, il grigio e l’azzurro, le tinte di un giorno che non avrei più dimenticato.



Feci capolino dietro il tavolo di casa, imbandito per il pranzo dell’epifania, l’ultima delle feste natalizie. La giornata tornava a prendere la quotidianità delle cose. A tavola con il sole basso dell’inverno che filtrava tra le tende della finestra e il vapore emanato dalla polenta pronta sul tagliere, mi sembrò un epilogo semplice, genuino, senza storia e le cose non mi apparivano più così importanti, come le avevo percepite al mattino. 

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