Ritorno alle crode ( post - covid)
Ho in serbo un bel programmino per quest’estate, l’ho messo
giù sulla mia agenda da lavoro perché non deve esistere solo quello, così ho
elencato una scelta di vie che sono i miei sassolini nella scarpa, alcune in
cordata con gli amici e alcune da solo. Quelle in solitaria però sono sicuro
che troverò il tempo di esaudirle. Sento che questa quarantena mi ha rafforzato
il carattere e l’autoconvinzione che la miglior arma per star lontani da
ideologie ed influenze di massa è estraniarsi, altrimenti è la fine. Per due
mesi e mezzo ho scolpito incessantemente legno e pietra, ho nutrito la mente
con le cose buone e positive aggrappandomi agli scalpelli, con la mia famiglia
abbiamo trascorso molto tempo a bonificare la valle dietro casa, stando tutto
il tempo a contatto con i nostri alberi che pian piano tornavano ad inverdirsi
e ho dedicato un’ora ogni mattina all’esercizio fisico come non mi era mai
capitato prima.
Maggio è il risveglio della montagna e cominciare bene la
stagione alpinistica anticipando i tempi mi ha sempre giovato. La via Livanos alla Torre delle Mede in
Civetta non è nell’elenco nella mia agenda 2020 ma parto alla volta della Val
Corpassa risoluto dei miei propositi. Gli altri anni ero molto più titubante
nel decidermi sul da farsi, ma come dicevo, quest’anno la storia è diversa, ho
rafforzato la convinzione che partire da solo è una cosa assolutamente sensata.
Livanos alla Torre
delle Mede (Civetta).
Negli ultimi anni questa via si è fatta apprezzare per il
contesto ambientale e per l’eleganza dell’itinerario. Non la tratterrei però come
un ripiego ad altre vie limitrofe in
caso di tempo incerto, la considererei semmai come un approfondimento della
conoscenza del territorio. Immagino i
coniugi Livanos, che trascorrevano le loro vacanze estive al Vazzoler, scovare
linee non ancora salite stando seduti ai tavoli in cortile, “mais
oui ça semble possible”, il “Greco” con il suo sigaro tra le labbra
e Sonia rilassata tra le sue braccia, entrambi follemente innamorati di quelle
rocce e desiderosi di sole ed avventura. Che bello che deve esser stato
incontrarli al loro ritorno dalle scalate, magari a volte litigavano oppure si
appartavano nella sala del rifugio davanti ad un piatto di spaghetti. Li ho
conosciuti che ero bambino proprio al Vazzoler, festeggiavano i 40 anni del
diedro alla Su Alto assieme all’amico Robert Gabriel, che signori simpatici!
La via non è per niente banale, forse risente un po’
dell’imponenza degli strapiombi alla sua destra, ma i passaggi che risolvono i
punti critici richiedono attenzione per la qualità della roccia non ancora
ripulita e cura nell’integrare con protezioni veloci. Tuttavia si incontrano
numerose clessidre provvidenziali. il grado V+ A1/A2 proposto in apertura viene
sostituito da un odierno VI-/VI riscontrabile su tre tiri della via.
La discesa
è facilmente intuibile con buona visibilità, altrimenti potrebbe risultare
difficoltoso trovare l’esatto punto in cui ci si immette nel canale di rientro
della Punta Agordo. Se non si è mai stati nemmeno su quest’ultima allora è bene
leggere attentamente la guida del Rabanser . Un ancoraggio di calata agevola un
canalino detritico che porta alla via normale della Torre Venezia…L’ambiente
lassù è sorprendente, assolutamente dolomitico.
Mi guardo attorno e non mi sembra vero di trovarmi qua tutto
solo a godere della purezza del posto. Sono ridisceso per il Troi del Baga con
il mio consueto sacco da dodici chili sulle spalle ritornando al furgone in meno di sette ore… viste
di sfuggita le cose appaiono più abbacinanti. Voglio che le immagini
memorizzate si mescolino con altre e magari fomentare nuovi sogni. Forse il
lavoro che faccio, quello dello scultore, necessita di un continuo nutrimento
di nozioni. Come nella Parafrasi della
Natura di Kandinsky il “taglia e incolla” delle fantasie del subconscio era
un patchwork senza né capo né fine ma emozionante. Mi commuovo quando riemergo
con il viso dalle acque gelide del torrente e guardo la Torre Trieste pensando
alla canzoncina finale di Cumbre di
Fulvio Mariani.
“Ho nella bocca un sapore un po’ amaro
mentre sfiorano il muro queste mie mani
che non san’ più trovare i colori sbiaditi
dell’arcobaleno dei ricordi lontani”
Questa via rientrava nell’elenco delle prescelte in
solitaria, ma a dire il vero mi era passato per la testa di andare a farla
durante l’inverno, idea che poi ho accantonato per la poca conoscenza del
posto, intimorito soprattutto per la complessità del rientro. Ancora una volta
mi colpisce il modo in cui mi convinco nell'obiettivo dedicando tutto me stesso
. Pianifico le fasi meticolosamente, faccio lo zaino calcolando i grammi,
riducendo l’equipaggiamento al minimo indispensabile, il martello e i chiodi ci
sono, (ci devono essere!) ma se ogni
attrezzo rientra nella nano-tecnologia allora la bilancia sorride e le mie
spalle pure! Indulgo sull’orario di partenza: non voglio gente né davanti né
dietro, quindi si parte prestissimo. Lascio il parcheggio del Duran dirigendomi
per la prima volta nella direzione opposta alla solita, stamattina la Moiazza
l’ho alle spalle e davanti a me si
profila il Sasso di Càleda. All'attacco
dello zoccolo, presso un diedro, c’è una
mega clessidra che sembra messa lì apposta di buon auspicio, senza dubbio
terrebbe il peso a strappo di un bulldozer. Ci passo dietro una fettuccia,
collego un capo della corda e preparo l’auto-sicura con il gri-gri, ogni volta
con lo stesso metodo di esecuzione, poi mi guardo attorno, scruto le intenzioni
del cielo che sembrano volgere al bello e rivolgo nuovamente tutti i miei sensi
alla scalata. Sono calmo e fluido nelle mosse, l’ambiente mi concilia la
concentrazione massima.
Alla sosta che precede la sezione chiave, devo
ridiscendere una seconda volta perché il capo della corda che stavo recuperando
si è incastrato in una fessura. Ho dimenticato di proteggere il nodo tampone
con l’imbuto anti – incastro. Eccetto qualche bella imprecazione sfuggitami,
reagisco senza grosse perdite d’entusiasmo ridendoci sopra. I tiri che
seguiranno sono di una logica magistrale, si danzerà per un po’ nel vuoto sopra
questi bei boschi verdeggianti passando da una fessura all’altra, inserendo i
camalot dove prima c’erano i cunei di legno piantati dall’apritore. Di questi
sono rimaste solo le tracce sulla roccia, come le strisce lasciate dai tronchi
trascinati dai trattori nei boschi quando grattano sui sassi. La tecnologia che
porto attaccata all’imbrago stride se confrontata con l’arcaica ferraglia di
cui disponeva il vecchio “Tecia”, mi raccontava di persona che i chiodi sono
sempre stati troppo costosi per esser lasciati in parete. Infatti la maggior
parte dei chiodi incontrati lungo i tiri duri sono di recente forgiatura.
Con
una tirata unica di corda attraverso tutta la sezione degli strapiombi e giungo
in sosta con il porta materiale svuotato, m’è avanzato solo un provvidenziale
X4 verde, che sembra rimasto apposta per rinforzare l’ancoraggio. Ce ne vuole
di voglia per calarsi nuovamente lungo i sessantacinque metri di corda fino a
rivedere lo zaino rimasto a godersi il panorama! Il Crag 40 è proprio un buon
compagno d’avventura e abbinato alla sacca porta corda espandibile sono
entrambi essenziali per la solitaria. Le migliorie che ho messo a punto sia nel
materiale che nelle tecniche portano i benefici sulla scorrevolezza dell’ascensione.
Ho sostituito tutti i moschettoni a ghiera inserendo solo quelli con l’apertura
a tre movimenti, inoltre nel caso di vie alpinistiche riduco il numero di
rinvii sostituendoli con moschettoni sciolti già agganciati ad anelli di cordini
e fettucce che porto al petto, un kevlar rigido non annodato lo tengo dentro le
maglie. I rinvii allungabili vanno bene solo sugli spit e sulle viti da
ghiaccio. Nel caso di terreno articolato come cenge, mughi, cambi di direzione
e aggiramento di spigoli mi porto appresso la sacca con la corda che faccio
sfilare senza il pericolo che s’incastri o che venga colpita da un sasso. Sono
procedure che derivano in parte dalle manovre di soccorso alpino, come ad
esempio le calate in corda doppia con le bambole predisposte ai lati dell’imbrago
per evitare aggrovigliamenti e procurate scariche di sassi. In questo modo il
climber diventa un soldato che previene gli attacchi offensivi, dotato di una
certa disciplina che implica anche le funzioni emotive. Non agire d’impulso è
la prima regola. Valutare ogni singolo passaggio per tornare a casa presto e
interi, con un vassoio di gelato da portare alle mie donne per la merenda del
dopo pranzo… ecco perché si deve correre!
“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è
saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa.
Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.”
Giovanni Falcone