Castelli di pietra
Quando ero piccolo pensavo che le montagne fossero giganteschi
edifici disabitati, distanti sopra le valli e apparentemente irraggiungibili. Questi
castelli rappresentavano per me un mondo impenetrabile, accessibili solo se in
possesso di doti speciali. Non vedevo punti deboli che io potessi concepire
come vie di salita, solamente fossati di difesa
aspri ed invalicabili, muraglie impenetrabili cinte da creste remote e
protese verso il cielo… i miei occhi si perdevano in un’immensità di roccia
uniforme. Tetra e austera se la parete era posterna, accecante come uno
specchio se esposta a sud.
In seguito avrei imparato a riconoscere le loro identità, ma ciò
non aiutava a familiarizzare: l’enorme organo di pietra si chiamava Civetta, il
gigante dall’infinita scalinata era identificabile con il nome di Agnèr e
l’enorme palazzo abbagliante veniva giustamente definito come la regina delle
Dolomiti: la Marmolada.
Cominciai quindi a studiare più a fondo le loro caratteristiche specifiche,
il perché e soprattutto per chi erano state create montagne così interessanti,
scoprendo che il loro fascino aveva stregato molti uomini e molte donne,
portando alcuni di loro addirittura alla
perdizione. Mi immersi nelle pagine dei libri che mio papà mi consigliava e che
avrei dovuto, secondo lui, sostituire ai Topolino trovandomi coinvolto nelle
bufere e nei “casini” di Walter Bonatti, di Renè Desmaison o Messner.
Effettivamente quelle storie mi appassionavano, ma provavo sempre un terrore
opprimente: come si poteva solo pensare di ficcarsi in guai così irrisolvibili?
Tutto ciò aveva sempre a che fare con la magnificenza delle montagne, quelle streghe! Il filo conduttore era
la ricerca dell’attimo perfetto, del punto in cui tutto appariva più chiaro e
la loro stessa vita appariva come una benedizione. Soli in cima ad un pilastro
di granito, la loro isola di pace distante dal mondo, sicuramente più vicina al
cielo o anche oltre e raggiunta dopo migliaia di metri di scalata estrema.
Nelle ascensioni che oggi io stesso intraprendo, sia da solo che
in compagnia, vorrei cogliere l’unico senso concreto del salire la parete senza
coinvolgimenti emotivi e infatuazioni, ma non potrà mai essere così per un
animo che tende ad emozionarsi per una superficie di marmo scolpita. Se si
riempie la propria vita di importanti scelte, ogni anno che passa è
giustificato ed ogni stagione che si rincorre è armonizzata.
Mi ritrovo alla soglia dei quarant’anni ad uscire di casa sempre
più presto per "regolare" l’armonia interiore, vagando per luoghi che sembrerebbero inadeguati ad un uomo con responsabilità familiari. Ma non sarei lo stesso uomo se ogni tanto non mi ritagliassi questi attimi. Un giorno mia figlia Ines, guardando verso la Val de Piera, mi confidò che avrebbe desiderato essere ancora su al rifugio ad "osservare le montagne dall'alto". In quel momento sentii che dentro di lei ardeva un fuoco familiare ed i suoi occhi s'illuminavano sempre di più. Quando la mamma ed io la portiamo a camminare, appena si devia per un sentiero impervio, gli scatta la molla dell'entusiasmo e schizza su come una lepre.
La Testa dell’Elefante si contraddistingue in mezzo alla selva di rocce che costituiscono i Cantoni di Pelsa, nei profondi angoli del Civetta. Un tempo credevo che quella roccia fosse stata scolpita da qualcuno, come le teste dei presidenti in America, in realtà è soltanto un avancorpo monolitico con le sembianze effettive di un pachiderma dalla proboscide gialla. Stamattina ho intenzione di fargli il solletico salendo il diedro compreso tra la proboscide e l’orecchio e vediamo se la bestia mi lascia salire in groppa a cavalcare alto sopra i ghiaioni. Il suo creatore l’ha voluto erigere di proposito su di un possente piedistallo, per innalzarlo e proteggerlo. Appena arrivo a toccare la roccia mi concedo una tregua contemplativa verso la Busazza che sembra soffocarmi con la sua mole. Non alzando mai la testa per tutto il tragitto di avvicinamento per il Troi del Baga, vengo sorpreso dalle pareti che mi circondano. Anche l’Elefante da questo punto d’osservazione appare più monumentale ed austero. Anche se dovrei accusare l’isolamento, in questo luogo mi sento a mio agio. Devo seguire il mio istinto attraverso le insidie dello zoccolo, da salire slegato fino a dove mi è possibile e raggiungere la base del diedro Livanos, fulcro della salita…
La Testa dell’Elefante si contraddistingue in mezzo alla selva di rocce che costituiscono i Cantoni di Pelsa, nei profondi angoli del Civetta. Un tempo credevo che quella roccia fosse stata scolpita da qualcuno, come le teste dei presidenti in America, in realtà è soltanto un avancorpo monolitico con le sembianze effettive di un pachiderma dalla proboscide gialla. Stamattina ho intenzione di fargli il solletico salendo il diedro compreso tra la proboscide e l’orecchio e vediamo se la bestia mi lascia salire in groppa a cavalcare alto sopra i ghiaioni. Il suo creatore l’ha voluto erigere di proposito su di un possente piedistallo, per innalzarlo e proteggerlo. Appena arrivo a toccare la roccia mi concedo una tregua contemplativa verso la Busazza che sembra soffocarmi con la sua mole. Non alzando mai la testa per tutto il tragitto di avvicinamento per il Troi del Baga, vengo sorpreso dalle pareti che mi circondano. Anche l’Elefante da questo punto d’osservazione appare più monumentale ed austero. Anche se dovrei accusare l’isolamento, in questo luogo mi sento a mio agio. Devo seguire il mio istinto attraverso le insidie dello zoccolo, da salire slegato fino a dove mi è possibile e raggiungere la base del diedro Livanos, fulcro della salita…
Quando c’arrivi sotto e osservi in alto l’angolo che s’incurva
verso il cielo, pensi che è proprio una bella creazione. E cominci a salire la
fessura, in questa inserisci tutti i friend che hai con
te.
Esaurendo quasi completamente la corda, mi ritrovo alla sosta denudato dei
ferri. Allestisco l’ancoraggio su tre chiodi datati, una clessidra e un Camalot
giallo. Mi nutro della “selvaggità” dell’ambiente, ansioso di provare di
persona la cosiddetta “placca delicata sprotetta” che si profila davanti appena
esco dalla parte strapiombante. Preventivamente mi son portato dietro un
birdbeak , nient’altro che una piccola ancoretta da artificiale che sostituisce
egregiamente i classici chiodini a lama, i quali hanno sempre il difetto di
girare quando vengono caricati verso il basso. Con cinque colpi di mazzuolo
l’ancoretta penetra 2 centimetri nella crepa altrimenti
inutilizzabile e l’ultimo passo prima della cengia scorre come una passeggiata
sul terzo grado.
La scorsa settimana sulla via Re Artù in Mondeval,
l’arrampicata “pre-confezionata” mi era apparsa forse priva d’avventura,
sebbene quelle vie siano dei capolavori d’eleganza, non mi danno il
sapore acerbo che le vie alpinistiche d’ambiente mi offrono.
Andandoci da solo,
accentuo ulteriormente il senso di ostilità e isolamento, oltretutto è tutta la
mattina che mi risuona in testa una canzone dei Folkstone, gruppo folk-metal
orobico, che dice :
“ tre giorni e diverrai un genio nullità,
per i vermi solo il rancio atteso”…
Nella profonda gola del rientro a
valle, noto che i battiti del mio cuore rimbombano con meno irruenza di quando ero dentro al
diedro.
Poco tempo dopo, ritrovandomi con la
corda impigliata, che non vuole lasciarmi finire il tiro del traverso, su Spitagoras
in Valle Rienza, comincio a credere che questa mia ricerca voglia mettere alla
prova il mio self-control. E’ solo il revival di quello che accade ogni volta
che il sistema di auto-sicura s’inceppa, nient’altro che un errore da risolvere
al prossimo giro. Il brutto è che tocca improvvisare una sosta nel bel mezzo
della placca e devi fartela piacere.
Quel giorno avrei voluto strafare,
accedendo alle Tre Cime salendo direttamente da Landro l’enorme fossato che
sprofonda ai loro piedi e Spitagoras mi sembrava la maniera ideale per poi
proseguire lungo una Dulfer alla Cima Grande. Ma uscito sfinito dalla prima
via, impiegando il doppio del tempo prreventivato, ho riposto attrezzi e
ambizione nello zaino e mi sono goduto il panorama.
Con Andrea Capovilla ritrovo il
compagno di cordata perfetto, scaltro e leggero nella scalata ed efficiente
nelle manovre. La Navasa alla parete nord della Rocchetta Alta di Bosconero ci
scorre sotto di noi come una piacevole passeggiata verticale e mentre salgo da
primo in scioltezza sotto la sua tutela, calpesto le mie stesse orme impresse
su queste vie classiche quasi vent’anni prima pensando a come la mia visione
delle cose sia cambiata.
Posso addentrarmi in questo gigantesco abside
strapiombante trovando le giuste nozioni, lasciandomi coinvolgere dal vuoto e
dal suo fascino soggiogante senza udire sirene incantatrici.
Con un buon amico accanto è sempre
stato attenuante condividere lo spazio striminzito di un terrazzino di sosta, o
forse lo è di più adesso che scalo le pareti anche da solo? A riguardo di tutto
ciò, Pietro Dal Pra ha offerto un prezioso contributo su Solitari di Fabio
Palma, Edizioni Versante Sud:
“[…] la corda è un’arteria di vita che attenua paure ed
emozioni,quindi la corda accentua questi due aspetti della vita...Perché in
solitaria devi gestire la paura, che non è più diluita lungo la corda che va
verso un compagno; gestire questa paura è sicuramente una qualità del
solitario.”
Nello stesso libro Steve house espone
un principio: “ Ho solo una regola per le mie solitarie: non devono mai
accadere per il motivo della mancanza di un compagno. Andare in montagna da
solo è una scelta che indirizzo solamente quando la mia testa incontra quel
terreno. Andare in solitaria è un viaggio nella solitudine, nel privato, in un
universo puro. Il successo, quando arriva, è solo un dono, la completezza e la
consapevolezza sono l’apice.”
Una settimana dopo la Navasa, sfodero
di nuovo il Gri-gri e la corda riservata all’auto-sicura ai piedi del Diedro Fouzigora,
al Cason di Formin. Per me s’è fatto giorno da un pezzo, essendo dapprima
passato in perlustrazione sotto la Dulfer alla Grande di Lavaredo ( un chiodo
fisso, quest’anno!), ma riscontrandola bagnatissima sono ridisceso al furgone,
parcheggiato prima del casello, e sono schizzato via verso il mio piano B. Non
mi pesa dover scorazzare per le Dolomiti perché ho sempre modo di inzuppare gli
occhi in panorami eccezionali strada facendo.
Con il temporale che incalza, riesco
quasi ad unire gli ultimi due tiri della via ed uscire dal baratro, ma la corda
si esaurisce nel bel mezzo del muro finale. Senza martello e chiodi allestisco
un ancoraggio Prinoth ( impiegato nel soccorso in parete)
su cinque punti: due microfriend rimastimi, due clessidrette e un masso
incastrato. Non ancora pago e mentre mi calo per disarmare il tirone, blocco la
corda su un’altra clessidra alcuni metri sotto. Alla sosta inferiore trovo
Nicola Tondini che sta recuperando il suo cliente. Imbarazzato, mi scuso se le mie sacche occupano il poco spazio del terrazzino aggettante e
m’impegno a sloggiare da lì. Caricatomi lo zaino in spalla, comincio a risalire
la corda lasciandomi dondolare nel vuoto della fessura strapiombante. Nicola mi
da un occhio, mentre i miei li sgrano letteralmente, l’ambiente attorno sempre
più cupo mette soggezione e non voglio trovarmi a risalire una corda fradicia,
i dispositivi non funzionerebbero con efficienza. Quando, un’ora dopo, sbuco
dal canale del rientro e guardo verso l’alto, noto che Nicola deve ancora
uscire dall’ultimo tiro, intanto comincia a piovere, poi a grandinare e ben
presto giungono anche i tuoni. Con la testa bassa sotto il cappuccio come un
monaco, ringrazio con un pensiero tutti i duri insegnamenti collezionati fin da ragazzino. Sotto spesse lenti, il quattordicenne dal viso
pieno di brufoli che si metteva a singhiozzare alle soste nei momenti critici,
potrebbe asciugarsi i lacrimoni vedendo come la maturità può rafforzare
chiunque.